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Crisi Medio Oriente, Kupchan: «Netanyahu ignora Biden. Solo lo stop agli aiuti militari potrebbe cambiare gli eventi» – L’intervista

10 Ottobre 2024 - 18:14 Serena Danna
L'ex consigliere politico di Barack Obama, e membro del Consiglio di sicurezza dell'epoca, commenta con Open il declino dell'influenza americana in Medio Oriente

La tanto attesa telefonata tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu, arrivata dopo quasi due mesi di silenzio tra i due leader, non ha prodotto buone notizie sul fronte mediorientale. Le richieste americane di un cessate il fuoco a Gaza e la pressione per non trasformare la risposta all’eccidio di Hamas in un conflitto regionale restano inascoltate. E mentre il mondo aspetta l’attacco all’Iran preannunciato dal governo israeliano, la leadership di Joe Biden appare sempre più debole. «Bibi Netanyahu ascolta Biden e il suo governo si impegna nella diplomazia con Washington – spiega a Open Charles Kupchan, consigliere politico di Barack Obama e membro del Consiglio di sicurezza della sua amministrazione – , ma poi fa le sue scelte pensando a quelli che ritiene essere gli interessi di sicurezza di Israele nella regione, e in base agli interessi politici di Netanyahu». Raggiungiamo Kupchan via Zoom a Washington, dove insegna affari internazionali alla prestigiosa Georgetown University.

Professore, come spiega questo declino di influenza americana?

«Siamo in un periodo di forte transizione del sistema globale. Gli Usa affrontano un panorama diplomatico più fluido e molto complicato rispetto al passato, caratterizzato principalmente da una diffusione del potere e dal ritorno a una rivalità politica tra Est e Ovest. Alcuni Paesi in Medio Oriente hanno oggi molta più importanza, anche grazie alla Cina che è diventato un attore importante. E così vediamo Paesi che non erano tradizionalmente alleati degli Usa scendere in campo, non allineandosi con l’Ovest e neanche con Russia e Cina, ma esercitando un nuovo tipo di potere. Mi riferisco a Turchia, India, Brasile, Indonesia, Arabia Saudita, Emirati. C’è una specie di risveglio politico che complica la capacità degli Stati Uniti di continuare ad avere l’influenza che aveva prima».

Sicuramente non ci riesce con Israele.

«L’amministrazione Biden ha chiarito più volte a Israele la sua posizione sul cessate il fuoco e sul contenimento della violenza, con l’obiettivo di evitare una guerra più ampia. Ma Washington riesce a fare poco. Per esercitare una maggiore influenza, sarebbe necessario a questo punto minacciare di interrompere il flusso di assistenza militare ed economica a Israele. Ma non credo che Washington sia pronta a percorrere questa strada. Non lo sono né i repubblicani, né i democratici».

Questo avrà un impatto sulle elezioni americane di novembre?

«Non credo che ci sia molta differenza tra democratici e repubblicani quando si parla del conflitto in Medio Oriente. Entrambi i blocchi sostengono chiaramente il diritto di Israele a difendersi. C’è un gruppo di elettori democratici della sinistra progressista e della comunità arabo-americana che è insoddisfatto del continuo sostegno degli Stati Uniti a Israele, ma non credo che avranno impatto sul voto, soprattutto perché molti di questi democratici progressisti non voteranno per Trump per via dell’appoggio di Biden a Israele. Allo stesso tempo sono però convinto che questa grande instabilità mondiale – una guerra in Ucraina, una guerra in Medio Oriente, una crescente tensione tra Stati Uniti e Cina – aiuti Trump, perché gli americani vedono che il caos dilaga sotto la guida di Biden».

Quindi lei non crede, come ha scritto Tom Friedman sul New York Times, che Biden sarà l’ultimo presidente americano pro-Israele?

«Penso che il sostegno a Israele rimarrà piuttosto forte nel Congresso americano. Potrebbe diminuire nel tempo con il cambio generazionale ma al momento direi che è solido da entrambi i lati del corridoio. E questo è uno dei motivi per cui Netanyahu oggi ritiene di poterla fare franca ignorando i consigli americani».

Lei è stato consigliere di politica estera di Obama durante una fase di dialogo con l’Iran basato sul “congelamento” delle attività nucleari di Teheran in cambio della rimozione di alcune sanzioni internazionali. Fu un errore l’apertura di Obama?

«Penso che l’accordo sul nucleare iraniano sia stato un risultato importante e che il Presidente Trump abbia commesso un grosso errore quando si è ritirato, perché ha così permesso all’Iran di portare avanti il suo programma nucleare. Teheran sta accumulando uranio arricchito ed è più vicino che mai alla capacità di produrre un’arma nucleare. Da questo punto di vista, la situazione è molto più pericolosa rispetto al periodo in cui il JCPOA (l’accordo sul nucleare iraniano ndr) funzionava. In generale, posso dire che le nostre politiche nei confronti dell’Iran – e questo vale sia per le amministrazioni democratiche, sia per quelle repubblicane – non hanno prodotto buoni risultati. Basta guardare il mondo in fiamme. Se c’è un burattinaio dietro la violenza in Medio Oriente è l’Iran: è dietro Hamas, dietro Hezbollah, dietro gli Houthi, dietro le milizie in Iraq e in Siria. Alla fine né la politica di Obama, né quella di Trump, né tantomeno quella di Biden sono riuscite a limitare la capacità di Teheran di creare problemi. E ora siamo sull’orlo di uno scontro militare significativo tra Israele e Iran».

Se lavorasse ancora alla Casa Bianca, che consiglio darebbe a Joe Biden per frenare questa pericolosa escalation?

«È troppo tardi per frenare. La campagna in Libano procede e Israele non si fermerà finché non avrà respinto Hezbollah dal confine. Sarei molto sorpreso se non ci fosse un attacco israeliano militare duro contro l’Iran. Credo che la questione chiave in questo momento riguardi proprio la portata dell’attacco. Sarà relativamente limitato, nel qual caso potrebbe assomigliare di più a quanto accaduto in aprile? Oppure assisteremo a un attacco molto pesante contro obiettivi militari, contro le infrastrutture energetiche, contro i siti nucleari, forse anche contro il regime? L’obiettivo principale dell’amministrazione Biden resta quello di cercare di contenere una guerra di vaste proporzioni, evitando che si trasformi in un conflitto ancora più globale. L’aspetto curioso è che molti Paesi arabi della regione sarebbero probabilmente favorevoli a un attacco israeliano contro l’Iran, perché vedono Teheran come un loro avversario».

E forse Netanyahu vuole provare a sfruttare anche questo labile consenso dovuto al successo delle ultime operazioni dell’esercito?

«Se Netanyahu riuscirà a smantellare sostanzialmente Hamas, a degradare Hezbollah e a danneggiare in modo significativo l’Iran e la sua capacità militare, potrebbe recuperare un forte sostegno tra gli israeliani, essere rieletto e persino ottenere il plauso dei leader stranieri. Ma ricordiamo che la sua azione potrebbe anche avere conseguenze disastrose».

Che possibilità di intervento diplomatico ha Kamala Harris rispetto a Biden?

«Harris ha chiarito che sosterrà fermamente il diritto di Israele a difendersi e appoggerà il flusso continuo di assistenza militare ed economica. Allo stesso tempo, però, appare più interessata di Biden a parlare della sofferenza dei palestinesi e della perdita di vite umane a Gaza. Sta cercando di mantenere un forte sostegno a Israele e allo stesso tempo di raggiungere gli elettori progressisti e gli arabi-americani che non sono soddisfatti della politica di Biden. Non può fare di più. Non credo che questo tema avrà un grande impatto sull’esito delle elezioni, molto dipenderà dalle politiche in patria e dalle questioni critiche, ovvero come aiutare le famiglie che lavorano a sostenere i costi dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari e degli affitti, e come affrontare il problema dell’immigrazione. In fondo nel momento del voto le grandi questioni di politica estera, dalla guerra in Medio Oriente a quella in Ucraina, contano davvero poco. E credo che sarà così anche alle elezioni di novembre».