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GIOCO
Dati, storie e strumenti per riconoscere i rischi e giocare responsabilmente
Il gioco d’azzardo attiva
aree specifiche del cervello:
saperlo ti aiuta a proteggerti
Molte piattaforme
utilizzano strategie per spingerti
a giocare di più
Riconosci il segnale
Le nuove dipendenze si insinuano nella routine, ma capire come funzionano è il primo passo per affrontarle
di Giada Giorgi
C'è un rischio silenzioso che si annida dietro semplici gesti quotidiani: abitudini capaci di non destare sospetti alimentano un meccanismo subdolo, mascherato da semplice passatempo. È il mondo delle dipendenze comportamentali, disturbi psichiatrici protetti spesso da un'idea comune: nessuna sostanza esterna, nessun pericolo. E invece il rischio esiste, con una diffusione tra l'altro sempre più ampia. Dipendenze dal gioco, da internet, da sesso, e ancora dal lavoro, da esercizio fisico, fino a quelle da acquisti compulsivi. Le cosiddette New Addiction sono capaci di diventare l’obiettivo primario della nostra mente finché l’opzione di smettere non rappresenta più una scelta libera.
La diffusione in cifre e la tecnologia come potente acceleratore
Secondo le ricerche dell'Istituto di Neuroscienze di Firenze si stima che in Italia tra il 10 e il 15% della popolazione presenti comportamenti che rientrano, in forma più o meno manifesta, nei criteri delle nuove dipendenze. Una stima coerente con le rilevazioni internazionali soprattutto in rapporto all’evoluzione digitale: una meta analisi pubblicata su Current Addiction Reports indica una prevalenza globale di dipendenze comportamentali di circa l’11,1%, con punte superiori tra giovani e adolescenti. Il fenomeno abbraccia in modo inevitabile tutto il mondo del gioco digitale: è per questo che nel 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito il gaming disorder tra i disturbi mentali ufficiali, all’interno della classificazione internazionale ICD11. Si tratta del comportamento persistente o ricorrente legato a gaming e videogiochi: individuato come patologia, oggi viene riconosciuto con criteri clinici precisi, diagnosi formale e protocolli di trattamento.
È un segnale della trasformazione in atto: «Con l’evoluzione tecnologica, la gratificazione immediata è diventata pervasiva, continua, accessibile in ogni momento», spiega Stefano Pallanti, direttore sanitario e scientifico dell’Istituto di Neuroscienze di Firenze, professore di Psichiatria all’Albert Einstein of Medicine di New York. «Prima la televisione commerciale, poi i videogiochi, infine internet e gli smartphone: è in questo contesto che le nuove dipendenze si sono sviluppate silenziosamente, favorite da un ambiente che premia l’iperconnessione e penalizza la pausa», spiega ancora Pallanti.
Tra gli acceleratori, anche la pandemia da Covid. Durante il primo lockdown uno studio pubblicato su Frontiers in Psychiatry, condotto dall’Istituto di Neuroscienze di Firenze in collaborazione con il Dipartimento di Psichiatria e Scienze del Comportamento della Albert Einstein College of Medicine di New York, ha rilevato che il 23,6% dei soggetti coinvolti mostrava sintomi compatibili con una forma di gioco d’azzardo patologico. Una cifra significativa su cui gli scienziati continuano a richiamare l’attenzione.
Giovani a rischio
Il terreno delle dipendenze comportamentali si mostra fertile già in età adolescenziale. Nello studio condotto su studenti delle scuole superiori pubblicato su CNS Spectrums, i ricercatori hanno registrato il 5,4% degli studenti nella categoria di “internet addicted”; percentuali preoccupanti sono emerse anche per altre dipendenze: il 16% degli studenti ha ottenuto per esempio punteggi talmente alti nella scala dedicata al gioco d’azzardo da essere classificato nella fascia clinica definita come “problema estremo”. Un dato anomalo, se si considera che in una popolazione sana ci si aspetta che solo il 2,5% delle persone ricada in quella stessa fascia.
In altri termini, il numero di adolescenti con una gravissima vulnerabilità al gioco risultava oltre sei volte superiore a quello atteso. Percentuali fuori scala sono state osservate anche per la dipendenza da sesso (11%), caffeina (13%), binge eating (disturbo da alimentazione incontrollata,7%) relazioni sottomesse (20%). A rendere il quadro più allarmante, la forte associazione tra questi comportamenti e forme significative di disabilità sociale e scolastica.
Fonte: Monitoraggio ESPAD Italia 2024 (popolazione 15-19 anni)
Quel filo rosso tra dipendenze diverse
Le dipendenze comportamentali condividono una matrice comune: l’impulsività. Per dirla con Pallanti, «la totale perdita di controllo, la compulsione nel reiterare l’azione dannosa e, soprattutto, l’attivazione degli stessi circuiti cerebrali coinvolti nelle dipendenze da sostanza». Il cervello risponde a certe azioni, come ricevere un like, fare una scommessa o concludere un acquisto, con un rilascio di dopamina, il neurotrasmettitore del piacere e della ricompensa.
L’altro criterio clinico che unisce le diverse forme di dipendenza sta negli effetti sulla socialità. Il soggetto si isola, entra spesso in conflitto con familiari o partner, di frequente perde interesse per attività sociali che prima considerava importanti. Un tipo di impatto che dal punto di vista clinico si traduce in un’evidenza: l’abitudine di svago o la fase passeggera si è trasformata in un disturbo su cui intervenire.
Dipendenze comportamentali in crescita: il gioco d’azzardo e la consapevolezza necessaria
Tra le dipendenze comportamentali diffuse, il disturbo da gioco d’azzardo rappresenta una delle realtà cliniche più complicate da combattere. Dalle schedine alle slot, fino alle scommesse sportive, senza il necessario controllo, lo svago iniziale può diventare prigione. E i numeri lo dimostrano: più di 800 mila persone oggi in Italia mostrano segnali compatibili con un disturbo da gioco d’azzardo. «Il DGA (Disturbo da Gioco d’Azzardo) è un disturbo psichiatrico diagnosticabile per il quale sempre più persone nel nostro paese hanno bisogno di intervento clinico. Si tratta di un fenomeno molto più esteso di quanto si creda», spiega Sabrina Molinaro, ricercatrice responsabile dell’Area Epidemiologia e Ricerca sui Servizi Sanitari dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR. I dati principali per l’Italia arrivano dall’indagine ESPAD, uno dei più estesi monitoraggi nazionali sul tema.
«Circa 20 milioni di italiani tra i 18 e i 74 anni hanno giocato almeno una volta nell’ultimo anno», continua Molinaro. «Di questi, 1 milione e 800 mila presentano un profilo a rischio moderato e almeno 800 mila persone mostrano segnali compatibili con una dipendenza vera e propria». Il gioco comincia a occupare spazio nella mente, nel tempo, nel portafogli, conducendo il soggetto a una condizione di grave compromissione fisica e psicologica. «L’urgenza purtroppo non riguarda solo gli adulti», chiarisce l’esperta.
Il gioco d’azzardo in Italia rimane vietato ai minori, eppure le cifre descrivono tutt’altra realtà. «Sono non meno di un milione e mezzo gli studenti italiani che dichiarano di aver giocato d’azzardo almeno una volta nell’arco dell’anno, stiamo parlando di oltre la metà della popolazione studentesca e di una fascia d’età, 15-19 anni, composta da soggetti fragili ed esposti. Di questi, 115 mila studenti mostrano un profilo a rischio clinico, e cioè potrebbero aver bisogno di aiuto per una vera e propria forma di dipendenza».
Tra sottovalutazione e dispercezione
La crescita dei soggetti considerati a rischio è progredita negli anni, la grande macchina da gioco si è arricchita di nuove possibilità: «Nel 2006 la raccolta complessiva si aggirava attorno ai 40 miliardi di euro, oggi siamo arrivati a 150 miliardi», spiega Molinaro, sottolineando come il dato economico sia legato anche a quello riguardante il rischio dipendenza. «L’offerta si è moltiplicata: new slot, VLT (Video Lottery Terminal), piattaforme online, operatori esteri. Il mercato cresce e con lui le ricadute cliniche ed epidemiologiche».
Una delle ragioni per cui la dipendenza comportamentale da gioco d’azzardo continua a espandersi è, secondo gli esperti, la persistente sottovalutazione del problema. «Il comportamento è talmente normalizzato da passare inosservato, anche quando si manifestano segnali di sofferenza o di perdita di controllo». La distorsione più pericolosa, però, riguarda la percezione del guadagno. «Sempre più giovani e adulti», racconta l’esperta, «sono convinti che il gioco rappresenti una scorciatoia concreta per migliorare la propria condizione economica. Giocando si può diventare ricchi: è un’idea capace di trasformare la sconfitta in incentivo. Se non hai vinto oggi succederà domani. Un meccanismo che porta molti a continuare a giocare anche quando hanno già perso tutto».
Chi sono i giovani più a rischio: l’identikit del giocatore problematico
Provare a tracciare un identikit del giocatore d’azzardo problematico tra i 15 e i 19 anni significa incrociare abitudini, stili di vita e condizioni relazionali che, nel loro insieme, delineano un profilo vulnerabile. I dati dell’indagine ESPAD 2024 offrono una mappa chiara delle caratteristiche più ricorrenti tra i ragazzi a rischio o già coinvolti in forme problematiche di gioco.
- Consumo di bevande energizzanti e sostanze: fanno un uso significativamente maggiore di alcolici, sigarette, energy drink, internet e sostanze illegali rispetto ai coetanei che non giocano.
- Spesa più alta: riferiscono tre volte più spesso di spendere 90 euro o più al mese per il gioco, rispetto ai non giocatori.
- Scelte di gioco più rischiose: partecipano con maggiore frequenza a tutte le tipologie di gioco d’azzardo, con una spiccata propensione per le scommesse.
- Relazioni più fragili: mostrano livelli più bassi di soddisfazione nelle relazioni con genitori e amici.
- Bilancio economico alterato: riportano più frequentemente di essere andati in rosso o, al contrario, di aver vinto somme significative, segno di una percezione distorta del guadagno.
- Comportamenti pericolosi: risultano più spesso coinvolti in guai con la polizia, risse, zuffe e altri comportamenti problematici.
- Forte presenza online: il 53% dei giocatori problematici pratica gioco d’azzardo online, un dato molto più alto rispetto alla media degli altri studenti.
Un altro aspetto cruciale riguarda la precoce età di esposizione al gioco d’azzardo. «La maggior parte dei giocatori problematici inizia molto presto, addirittura intorno ai 10-11 anni», spiega Molinaro. «Questa familiarità precoce con il gioco è un fattore predittivo rilevante: più si anticipa il primo contatto, più aumenta la probabilità che il comportamento diventi patologico con l’età».
Uno sguardo di genere
Nel delineare i meccanismi che alimentano il rischio di dipendenza da gioco il genere gioca un ruolo chiave. I dati mostrano che i ragazzi, in media, giocano più delle ragazze e tendono a sviluppare pattern più gravi. Ma non si tratta solo di quantità: come confermato da uno studio sul tema pubblicato su Personality and Individual Differences, a variare in base al genere sono anche le motivazioni, le preferenze e i comportamenti associati.
«Nei ragazzi il gioco d’azzardo è spesso legato alla ricerca di emozioni forti, di stimoli eccitanti. Prediligono in particolare i giochi di strategia o scommesse sportive che implicano una percezione, spesso illusoria, di controllo sull’esito e della possibilità di influenzare il risultato con abilità personali», spiegano i ricercatori. I dati ESPAD per l’Italia confermano: «Le ragazze tendono ad alternare modalità online e tradizionali (onsite), mostrando una maggiore fluidità nel passaggio tra le diverse forme di gioco. Si avvicinano più spesso a giochi di sorte, come gratta e vinci, lotterie o slot machine».
L’individuazione di differenze nelle preferenze di gioco viene considerata importante per progettare strategie terapeutiche e di intervento il più possibile efficaci: «La personalizzazione degli approcci, anche in chiave di genere, può essere decisiva proprio per intercettare in tempo i segnali di rischio», spiega Molinaro.
Gaming: il confine (troppo spesso) sottile tra videogame e gioco d’azzardo
L’evoluzione tecnologica di mezzi e strumenti di gioco, presentata dai ricercatori come potente acceleratore dei meccanismi di dipendenza, viene legata anche alla grande diffusione del gioco online. Il Centro Nazionale delle Ricerche evidenzia un grosso legame tra il gaming, l’intrattenimento frequente con videogiochi online su console, computer, dispositivi mobili e piattaforme digitali, e il gambling, il gioco d’azzardo. «Circa il 76% degli studenti che ha giocato d’azzardo ha praticato anche videogiochi» racconta Molinaro, «con il 91% dei maschi e il 54% delle femmine. Quasi il 32% di loro ha fatto entrambe le attività nel corso dell’anno».
Dal punto di vista del gaming, il contesto italiano emerge come tra i più critici in Europa. Con la più alta incidenza tra gli adolescenti (il 45%), registra un aumento costante del gaming online problematico stimato al 22% degli studenti. Gli esperti evidenziano come uno degli esempi più immediati e diffusi dello stretto rapporto tra gaming (gioco online) e gambling (gioco d’azzardo) sia rappresentato dall’uso delle cosiddette loot box. «Sono scatole premio virtuali, acquistabili all’interno dei videogiochi», spiega ancora Molinaro. Acquistandone l’apertura si va incontro a un contenuto randomizzato: «Solo dopo aver comprato la scatola il giocatore scopre di avere ottenuto o meno la chiave per poter andare avanti con il game e con quale modalità».
Da un punto di vista strutturale e funzionale, molte loot box combinano due caratteristiche critiche: l’uso di denaro reale per accedervi e l’offerta di ricompense con valore trasferibile. «Un confine troppo sottile tra monetizzazione digitale e scommessa», commenta Molinaro, «cos’altro sono le loot box se non una forma di gioco d’azzardo? Senza consapevolezza, il coinvolgimento intensivo nei videogiochi, amplificato dalla presenza delle loot box, agisce da ponte verso comportamenti di gioco problematici».
Sblocca la
consapeevolezza
Cosa succede nel nostro cervello quando giochiamo
di Emilio Cozzi
Perché giochiamo d’azzardo? Ci sono senza dubbio motivi economici e sociali, ma la risposta più accurata arriva dalle neuroscienze, che da anni studiano il fenomeno dal punto di vista cerebrale. «Giochiamo perché il nostro cervello è fatto per scommettere. Evolutivamente è portato a rischiare per la sua sopravvivenza» spiega Stefano Pallanti, professore di Psichiatria e direttore dell'Istituto di neuroscienze di Firenze.
Il rischio è una parte integrante dell’esistenza su questo pianeta: rischia la gazzella quando si abbevera, rischia qualsiasi animale durante l’accoppiamento, rischiarono i nostri antenati quando abbandonarono la savana in cerca di nuove risorse e terre più accoglienti. «C’è, nel nostro cervello e in quello di qualunque primate, un meccanismo innato che lo porta all’azzardo per avere qualcosa in più, qualcosa che migliori la sua fitness evolutiva, cioè gli dia un vantaggio in caso di riuscita».
Detto altrimenti, il gioco è un tratto ineludibile, legato a doppio filo alle dinamiche più basilari della sopravvivenza e dell’evoluzione. Il meccanismo della ricompensa è una parte inalienabile dell’essere umano. Non possiamo che farci i conti. Nel caso del gioco d’azzardo e di ogni sua declinazione, letteralmente.
L’attrazione per l’incertezza
«Un'altra caratteristica evolutiva del cervello umano è l'attrazione per l'incertezza - continua Pallanti - il vero elemento seduttivo del gioco d’azzardo non è la ricompensa, ma l’indeterminatezza, capace di attivare il rilascio della dopamina». L’attivazione è un misto di trepidazione, paura e attesa, capace di fare leva sugli stessi meccanismi legati alla gioia della scoperta e della conquista. Il processo è osservabile in maniera lampante nelle slot machine, dove il gesto fisico di tirare una leva o premere un tasto inaugura un momento di imprevedibilità, che può essere il preludio a una ricompensa o a una perdita.
Oggi, oltre i confini del gaming, è possibile riscontrare lo stesso fenomeno in un atto altrettanto comune, cioè lo scrolling di un social network, pronto a offrire un’alternanza istantanea e pressoché infinita di reel, stories o caroselli assortiti: ogni swipe promette un contenuto nuovo, che potrebbe rivelarsi gradevole o deludente. È l’indice di quanto il motore del gioco non sia la ricompensa, che pur contribuisce a un ampio ventaglio di meccanismi di rinforzo, ma il brivido della sua componente aleatoria.
È lì che scatta il firing della dopamina, il neurotrasmettitore che associamo al piacere e alla felicità. «Si gioca per vivere questa condizione di incertezza. Reiterandola con frequenza, come succede con il consumo di qualsiasi sostanza, è possibile arrivare alla dissociazione: si perde il controllo, a tal punto da non sapere più cosa si fa, quanto si è perso o vinto».
La sensazione, anelata dal nostro cervello come l’acqua nel deserto, diventa tanto irresistibile quanto più aumenta il divario tra la cifra scommessa e la vincita potenziale. «Davanti alla remota possibilità di un premio enorme, il cervello disfunziona nell’area di Brodmann numero 11, quella delle valutazioni economiche» precisa Pallanti. Più abitiamo la zona dell’incerto, più abbiamo difficoltà nel valutarne in maniera oggettiva rischi e benefici. Ciò che innesca la produzione di dopamina, del resto, afferisce all’attesa trepidante.
Mind games: meccanismi cerebrali
Durante il gioco entrano in scena i rapporti tra zone diverse del cervello: il nucleus accumbens, alla base, è legato alla gratificazione, mentre il controllo inibitorio si localizza in prevalenza nei lobi frontali, nell’area supplementare motoria e nella dorsolaterale prefrontale. Sono, queste ultime, le aree che danno sostegno alle nostre capacità di calcolo e al decision making. Dovrebbero controllare le sottostanti, quelle che forniscono la spinta verso la gratificazione. Tuttavia l’attivazione ripetuta – la leva delle slot, il tasto, lo swipe - rinforza l’area basilare, che progressivamente tende a prevalere e a innescare dinamiche compulsive.
In questi casi, la componente di eccitazione gradevole via via diminuisce fino a perdersi; rimane solo lo stimolo alla ripetizione dell’esperienza, per evitare gli effetti della sospensione del piacere. È un fenomeno del tutto analogo a quello delle sostanze che creano assuefazione: il piacere iniziale svanisce lasciando solo la necessità del consumo. La accompagna l’illusione del controllo, nella quale il nostro cervello, guidato dai suoi impulsi, perde traccia della cifra spesa o del tempo trascorso. «Sembrerà un paradosso – incalza Pallanti - ma il cervello non lavora per noi; lavora per conto suo e degli interessi della specie».
Tutto questo è vero per gli adulti quanto nelle generazioni più giovani, che anzi risultano anche maggiormente vulnerabili se esposte a situazioni di gioco precoce, capaci di dare un imprinting: «La grande plasticità del sistema permette che queste esperienze diventino paradigmatiche, la guida della vita».
Sono dinamiche che è possibile sfruttare per finalità diverse, anche con approcci predatori, in grado di fare leva sul funzionamento cerebrale più profondo. Tuttavia, come certificano diversi studi, è possibile interromperne l’efficacia, o addirittura utilizzarle per stimolare un’esperienza di gioco responsabile.
Reagire…fermando la testa
Le pause obbligatorie, definite periodi di cooling off, possono essere progettate per interrompere le sessioni di gioco prolungate e offrire l'opportunità per una "pausa di riflessione”. Ricerche su larga scala dedicate al gaming online, come quelle riportate in uno studio del 2024 firmato da Niklas Hopfgartner, Michael Auer, Tiago Santos, Denis Helic e Mark Griffiths, hanno dimostrato come il ricorso al cooling off influenzi positivamente i modelli di gioco, riducendo nel breve termine l'accettazione dello strumento da parte del giocatore, ma favorendo una consapevolezza maggiore.
Altri studi indicano che le pause «possono normalizzare i deficit di perseverazione della risposta osservati nei giocatori patologici» suggerendo un potenziale impatto sulla regolazione del comportamento ludico (Corr & Thompson, 2014).
Anche l'implementazione di messaggi pop-up che consigliano di impostare limiti di tempo o denaro, o che rendono obbligatorie interruzioni brevi, ha dimostrato efficacia: come rilevavano già nel 2014 Hyoun S. Kim, Michael J. A. Wohl, Melissa J. Stewart, Travis Sztainert e Sally M. Gainsbury, l'impostazione di un limite temporale tramite un pop-up sulle macchine da gioco elettroniche (o Egm) può ridurre la durata delle sessioni di gioco.
Per quanto brevi, queste interruzioni possono elevare la latenza della risposta del giocatore e fornire un momento per riflettere e, potenzialmente, modificare il comportamento, soprattutto in periodi di perdite sostenute (Parke, Dickinson, O'Hare, Wilson, Westerman-Hughes, & Gerling, 2022).
Interventi più attivi, che richiedano agli utenti di impegnarsi in compiti digitali in tempo reale (per esempio rispondendo a domande sulla sessione di gioco o sul tempo trascorso), possono interrompere lo stato di dissociazione (Kiyak, Cetinkaya, McAlaney, Hodge, & Ali, 2024). L'obiettivo è riorientare l'attenzione del giocatore alla consapevolezza del proprio comportamento, aumentando la percezione del tempo e del denaro spesi.
Questi interventi, dinamici e a intermittenza, in fondo sfruttano le stesse potenti meccaniche cerebrali innescate dal gioco, ma indicando una strada opposta alla dissociazione. “Catturano” l'attenzione rendendo il giocatore più consapevole del qui e ora. «È un buon punto di inizio – conclude Pallanti – il gioco d’azzardo non è né un vizio né un disturbo mentale; è un disturbo della connettività, cioè relativo ai meccanismi con cui le diverse aree del cervello collaborano per regolare il nostro comportamento. Oggi sappiamo che è possibile intervenire».
Decifra la piattaforma
Le dinamiche di gamification e le scelte progettuali responsabili
di Emilio Cozzi
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